Diciamolo pure, perchè il nostro lavoro è anche quello di saper raccontare delle emozioni. Saperle raccontare, appunto, senza però fare in modo che esse possano prendere il sopravvento. Perchè verrebbe messa altrimenti in gioco l'obiettività, caposaldo dell'etica giornalistica e valore di riferimento troppo spesso dimenticato o ignorato. Eppure, certe volte le parole da dire, o da scrivere, pesano davvero come macigni. Perchè arrivano dalla necessità di dover comunicare una notizia che mai si sarebbe voluto dare, o dal costruire frasi apparentemente banali e inevitabilmente di circostanza da dietro un microfono. 

Suona strano, vedere questi giovani infilarsi senza timore lo sguardo in testa, con lo sguardo deciso ed il piglio di chi è pronto per spaccare il mondo, circondati da quell'aurea di invincibilità che sembrano portarsi addosso nel momento in cui si infilano in una monoposto o salgono in sella ad una moto. Perchè poi sanno che attenderli c'è una sfida con il mezzo, con la pista, con una selva di animali inferociti, ma soprattutto ed innanzitutto con sé stessi. Salvo poi vederli tornare ai box, incontrarli nel paddock, scambiarci due chiacchiere ed accorgersi che nella stragrande maggioranza dei casi sono ragazzi come noi, persone semplici, i quali hanno il privilegio di stare vivendo un sogno e di poterlo vivere, assaporare, raccontare.

Ed è anche per questo che il nostro mestiere diventa ancora più bastardo, quando capita qualcosa di brutto a qualcuno di loro. Perchè hai avuto modo di andare oltre quello sguardo, magari solo per un istante, per un rapido cenno d'intesa, un'intervista o un veloce saluto. Nicky come Jules, come Justin, come Marco, e prima ancora come Michele e altri ancora. Il tutto reso ancora più beffardo dal fatto che stavolta le corse non c'entrano proprio un bel niente. Una vita trascorsa a 300 all'ora e poi un maledetto incrocio che all'improvviso spegne tutto. Stavolta non è il nostro sport ad averci tradito: solo il destino. Bastardo destino.

Marco Privitera

 

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