Yellow Flag Talks | Il "caso" Dale Earnhardt
“The Earnhardt crash has been described by some as “not looking that bad”. However, analysis demonstrates it to have been an extremely severe crash.”
Il 21 agosto 2001 veniva pubblicato il report sull’incidente che costò la vita a Dale Earnhardt, uno dei piloti più vincenti della storia della NASCAR, dopo mesi di dubbi e dolore. Sull’uomo che legò per sempre il suo nome a quel numero “3” stampato sulla fiancata nera di una stock car si potrebbe scrivere tanto, cosa che effettivamente è stata fatta, mentre sulle conseguenze di quella drammatica Daytona 500 si sa relativamente poco, specialmente al di qua dell’oceano, e la cui importanza è sintetizzata proprio dalla conclusione del report sopra riportata: in un ambiente abituato ad assistere a tremendi schianti contro il cemento, disastrose ammucchiate fra decine di auto e folli capriole nelle zolle di terreno, piangere un pilota a seguito di un incidente “all’apparenza non serio” (“not looking that bad”) mise la NASCAR con le spalle al muro, forzando una profonda rivoluzione sul tema della sicurezza come 7 anni prima fece la morte di Ayrton Senna. Per il 18° anniversario della scomparsa di Ralph Dale Earnhardt Sr. siamo entrati in possesso di quel report voluto fortemente dalla NASCAR e costato milioni di dollari, e siamo qui per svelarvi i suoi segreti.
18 Febbraio 2001
La Daytona 500 è una di quelle gare che un pilota americano sogna sempre di vincere, prima o poi. Dale Earnhardt nel 2001 era l’uomo con più vittorie sul superspeedway della Florida, ma era riuscito a vincere la gara più importante dell’anno solo una volta, nel 1998, dopo 2 decadi di tentativi mai andati a buon fine. Nonostante questo e un malcontento generale sul nuovo pacchetto aerodinamico voluto per compensare l’introduzione di un restrittore al carburatore, Earnhardt era stato visto sereno e fiducioso sull’esito della gara, cosa che trovò conferma nel fatto che al 173° giro viaggiava in terza posizione dietro a due piloti del suo team, il figlio Earnhardt Jr. e Michael Waltrip.
La situazione non cambiò dopo l’apocalittico incidente che mise fuori gioco 18 concorrenti e che costrinse a fermare la gara con ripartenza al giro 180, solo che nella lotta si era inserito anche Sterling Marlin. Dale cercò di contenere il rivale per permettere ai suoi due pupilli di giocarsi la vittoria sino alla curva 4 dell’ultimo giro: Marlin, sulla corsia più bassa, toccò la coda dell’auto di Earnhardt Sr., sulla corsia centrale, che nel tentativo di controllarla in controsterzo ottenne l’esito opposto, ossia “l’effetto pendolo” tanto temuto sugli ovali americani, intraversandosi verso il muretto esterno e portando con sé l’auto che viaggiava sulla corsia più alta, quella di Ken Schrader. Entrambe le vetture impattarono con l’angolo anteriore destro, scivolarono giù per il banking e si arrestarono nella zona di prato all’interno della curva. L’esplosione della folla per la prima vittoria in carriera di Waltrip non riuscì a coprire lo strano silenzio proveniente dall’abitacolo della Chevrolet #3, tanto che Schrader andò a sincerarsi delle condizioni del suo rivale appena sceso dalla propria vettura. I gesti che fece dopo aver rimosso la rete di sicurezza lasciavano ben pochi dubbi sulla gravità della situazione: Dale Earnhardt giaceva senza più la maschera protettiva per gli occhi, zuppo di sangue in quantità sufficiente da imbrattare l’abitacolo. La scena scosse tanto Schrader da permettergli di raccontare il suo punto di vista solo diversi anni dopo, in lacrime, ammettendo quanto segue: “When I went up to the car, I knew he was dead. I didn't want to be the one who said 'Dale is dead’.” (“Quando raggiunsi l’auto, seppi che era morto. Non volevo essere il primo a dire ‘Dale è morto’.”)
Il pilota venne estricato e trasferito immediatamente all’Halifax Medical Center dove venne dichiarato morto alle 17:16. Due ore più tardi, il presidente del campionato Mike Helton annunciò la notizia al mondo intero.
Stephen Olvey, medico ufficiale del campionato CART, vide l’incidente in diretta e lo bollò come un “niente di che”, fino a quando non ricevette la telefonata di un collega che lo avvisò in anteprima dell’esito fatale dello stesso. Come riportò nel suo libro, Olvey rimase allibito e in quanto annoverato tra i massimi esperti di sicurezza nel motorsport americano venne contattato da decine di giornali ed emittenti televisive per commentare l’accaduto. Pur non trattando nello specifico l’operato della NASCAR, Olvey dovette spiegare come mai nella CART ci fosse un “safety team” unico e allenato, come mai si potesse disporre di un direttore sanitario viaggiante, come mai le monoposto riuscivano a resistere a determinati impatti e come mai il collare HANS era stato reso obbligatorio. E soprattutto, come mai la NASCAR non avesse nulla di tutto ciò. Il campionato di Bill France infatti era sotto attacco e lo rimase per i mesi a seguire, incalzato da personaggi più o meno esperti; i secondi in particolare, specchio del tifoso medio, non esitarono a far pervenire a Sterling Marlin diverse minacce di morte contro le quali dovettero schierarsi Earnhardt Jr. e Darrell Waltrip. Ma Marlin non fu l’unica vittima della rabbia popolare: lunedì 19 febbraio venne notata all’interno dell’abitacolo della vettura incidentata una cintura di sicurezza recisa, e mercoledì 21 la questione venne sollevata in presenza di parenti, piloti, responsabili del campionato e dirigenti del team. Questo fattore, più una prima analisi medica che attribuiva la morte di Dale Earnhardt all’impatto contro il volante, suggerirono che il pilota non avrebbe sostenuto ferite fatali se la cintura fosse stata integra, con conseguente pioggia di insulti e minacce a Bill Simpson, fondatore della nota Simpson Performance Products. Una successiva perizia medica firmata dal Dr. Barry Myers della Duke University e pubblicata il 10 aprile 2001 scagionò il produttore, asserendo che neanche un sistema di ritenzione integro avrebbe evitato il colpo di frusta e il contatto tra mento del pilota e volante. Questo non bastò a rendere più sopportabile la situazione per Bill Simpson, che successivamente lasciò la direzione della sua azienda. Lo stesso giorno la NASCAR annunciò il via libera per la stesura di un’investigazione ufficiale.
Official Accident Report – No.3 Car
Gli organizzatori del campionato contattarono due gruppi di esperti, ognuno responsabile di un determinato campo ma i cui risultati andavano ad intrecciarsi ai rilevamenti dell’altro e viceversa: il “Nebraska Team” composto da professori dell’Università del Nebraska specializzati in dinamica e ricostruzione al computer di incidenti stradali, e il “BRC Team” in cui militavano esperti di biomeccanica della Biodynamic Reserch Corporation. Lo studio dell’episodio ha comportato una serie di rilevazioni in pista e sull’auto per comprendere tutti i movimenti, riproposti poi in un crash-test su larga scala e in una ricostruzione al computer. Stabilite le dinamiche dell’impatto, si è cercato di chiarire le cause di ferimento tramite analisi dell’abitacolo, dei sistemi di protezione del pilota, dell’autopsia e di una ricostruzione tramite test con manichino. Partiamo dall’inizio.
L’impatto con la vettura #36 di Ken Schrader è stato sufficientemente forte da staccare la ruota posteriore destra, con la sospensione della Chevrolet di Earnhardt che ha lasciato evidenti segni nell’asfalto. Le due auto, così agganciate, hanno puntato verso il muretto esterno con un angolo di circa 13-14° rispetto alla direzione di marcia e in particolare quella di Dale con un angolo di 55-58° rispetto alla barriera.
Tramite un’analisi fotogrammetrica, ossia l’estrapolazione dei frame dai video (circa 1 frame ogni 0.035 secondi) per ricostruire graficamente lo scenario, si è potuta calcolare anche la velocità di impatto che si aggira attorno ai 252-257 km/h, un cambio di velocità di circa 70 km/h e un picco di decelerazione protratto per 0.08 secondi (equivalenti ad una caduta libera da un palazzo di 20 metri o ad essere colpiti da un'auto lanciata a 120 Km/h), dati concordi con quanto riportato dalla telemetria prima che i dispositivi a bordo venissero danneggiati dalla decelerazione. I valori così ottenuti hanno permesso di calcolare il livello di gravità dello schianto (IS: impact severity) che, con i suoi 956 kN/m, è stato giudicato come notevolmente violento. A testimoniarlo c’è la stessa vettura incidentata: pur senza cedimenti della struttura tubolare o intaccamento della centina che separa abitacolo e vano motore, il gruppo propulsore-trasmissione-differenziale è arretrato di circa 7 cm.
La causa di questa sorprendente violenza è da ricercare nel fatto che l’auto non ha ruotato intorno al proprio asse verticale, colpendo prima col muso e poi con la coda come tante volte avviene in incidenti analoghi, ma scaricando tutta la forza dell’impatto in un unico, devastante contatto frontale. Si è ritenuto che la causa di questa mancata rotazione sia dovuta all’ostacolo costituito dalla vettura #36 appoggiata sul fianco destro, ma per essere certi di questa incognita e dell’effettiva realtà dei dati raccolti, si è deciso di replicare l’incidente in un crash test su scala reale: una stock car appositamente preparata e dotata di 36 accelerometri è stata lanciata contro una barriera, anch’essa strumentata, ad una velocità di 64 km/h (risultante della velocità perpendicolare alle barriere e quindi unica d’interesse) con un angolo di 54°. A seconda del tipo di parametri impiegati, il test ha restituito un valore di decelerazione oscillante tra i 48 e i 68G oltre a danni comparabili con quelli osservati sulla Chevrolet #3. Non contenti, gli specialisti della Altair Engineering hanno ricreato la scena tramite un’analisi a elementi finiti (FEA) che consiste nel suddividere l’oggetto in esame in infiniti “mattoncini” e valutare il comportamento di ognuno di essi. In questo caso particolare una moderna vettura da Winston Cup è stata suddivisa in circa 87.000 sotto-elementi e spedita contro una barriera virtuale con modalità analoghe. I risultati sono stati strepitosi: non solo si sono registrate decelerazioni, tempistiche e deformazioni incredibilmente simili alla realtà, ma è stato anche appurato che la particolare traiettoria della vettura #3 non avrebbe permesso una rotazione intorno al proprio asse neanche nel caso in cui non ci fosse stata l’auto #36 al suo fianco. I riscontri sono stati talmente incoraggianti da suggerire di utilizzare questo metodo per la futura progettazione di vetture, sistemi di protezione e barriere.A questo punto si è potuto investigare sulle cause del ferimento e della morte, partendo da quelle che erano le consuetudini di Earnhardt per quanto riguarda la posizione di guida: il pilota infatti sedeva con la testa leggermente inclinata a sinistra rispetto all’asse mediano del sedile, aveva l’abitudine di ancorare la cintura inguinale davanti al sedile senza farla passare per l’apposito foro e assicurava le cinture toraciche al telaio in modo tale da avere un certo gioco. Si è sottolineato che queste caratteristiche non hanno messo in pericolo la vita di Dale Earnhardt, che infatti nel corso degli anni è sopravvissuto a incidenti gravi (un esempio su tutti: Talladega 1996) senza riportare gravi conseguenze, tuttavia potrebbero aver influito su certe dinamiche nell’episodio di Daytona 2001. In particolare, al momento del contatto con l’auto #36, il corpo di Earnhardt ha subito una traslazione verso destra e in avanti (sono stati trovati segni sul sedile che confermano questa tesi), cosa che ha sbilanciato i carichi agenti sulle 5 cinture di sicurezza così come la posizione particolare di guida e la cinta inguinale ancorata in posizione non standard.
Per stabilire se la cintura si fosse spezzata nell'impatto, durante l'estricazione o per successivi interventi di depistaggio venne commissionata una indagine approfondita a Baker Botts della IPSA International. Il risultato fu che non erano presenti attrezzi abbastanza piccoli per andare a reciderla tra sedile e rollcage; il sangue era di Dale Earnhardt e per come si era depositato la rottura era avvenuta per forza nell'impatto; le fibre erano chiaramente tranciate per trazione e non per taglio; nessuno ha avuto modo o è stato visto armeggiare con le cinture dopo l'incidente; le ferite infine non sono tipiche di un corpo ancorato perfettamente, ma mostrano che ad un certo punto tutto il carico è passato alla parte destra del corpo causando lesioni asimmetriche. La causa è da ricercarsi nel fenomeno di “dumping”: se l’aggiustatore di tensione in metallo si pone con un certo angolo rispetto alle fibre della cintura e queste vengono caricate in maniera asimmetrica per particolari dinamiche, lo sforzo si concentra sulla diagonale della trama e non sui lati come dovrebbe essere, diminuendo la superficie di contatto e generando una rottura improvvisa. In questo caso, le fibre mostrano di essere state recise all’altezza dell’angolo basso dell’aggiustatore di tensione, accanto alla sottile barra metallica di blocco. Ciò non è imputabile ad un errore di allacciamento del pilota, ma a una sfortunata serie di condizioni tanto è vero che si tratta del primo caso di “dumping” registrato nella NASCAR dalla sua fondazione.
L’ancoraggio customizzato della cintura inguinale, il cui scopo è quello di bilanciare la forza agente sul torace e di evitare la rotazione del bacino, ha incrementato l’escursione in avanti e a destra del corpo, e la rottura della cinta addominale sinistra ha inevitabilmente causato una maggiore pressione su quella destra, tanto da lasciare un’anomala abrasione di 22x5 cm che scende dal fianco destro sino all’inguine. La gamba destra ha piegato la paratia posta accanto al cambio, mentre la sinistra ha sbattuto contro pedaliera e piantone dello sterzo, rimediando la frattura della caviglia e del distale del perone. Il fatto che Earnhardt assicurasse le cinture per il torso alla base del telaio, (dopo averle fatte girare intorno ai supporti delle spalle) permette un certo vantaggio in certe dinamiche, poichè la maggior lunghezza delle cinture consente un’importante escursione del corpo e quindi un minore stress per il torace, ma in dinamiche del genere la maggiore elongazione delle cinture causa l'impatto di testa e petto contro lo sterzo. Il volante di Dale Earnhardt è stato rinvenuto in uno stato difficile da analizzare, con deformazioni che vanno dai 5 ai 13 cm, ma il movimento destrorso del capo ha di certo portato ad un impatto radiale, il peggiore possibile perché mentre bastano dai 90 ai 160 kg di carico per flettere in avanti le razze, ne occorrono quasi 600 per deformarle radialmente. In parole povere, Dale Earnhardt ha sbattuto contro il volante con una traiettoria che non permetteva il minimo assorbimento di energia.
Le fratture a sterno e 8 costole sinistre invece non sono imputabili a questo contatto: la mancanza di sanguinamento alle estremità rotte rilevata in sede di autopsia lascia presumere che siano state causate dall’attività di rianimazione cardiopolmonare.
Sicuramente legata all’incidente è, invece, la lesione che ha causato la morte: frattura della base cranica. Più nello specifico, il medico legale ha rinvenuto una frattura circolare frastagliata attorno al “foramen magnum”, ossia l’apertura nella parte bassa del cranio attraverso la quale passa il midollo spinale per connettersi al cervello. Questo genere di lesione è documentata nei testi di medicina sin dal 1800 e ha come causa o impatti fisici dell'osso parietale, frontale, temporale e occipitale o stress inerziali causati da un brusco rallentamento del torso con testa libera di muoversi (colpo di frusta). In questi casi si trovano però traumi al torace, emorragia subdurale, emorragie e rottura dei legamenti del collo o frattura delle vertebre cervicali, ma niente di questo è stato osservato sul corpo Dale Earnhardt, che invece ha mostrato un ematoma di 2,5x1 cm sul mento e uno di 8x5,5 cm nella parte sinistra della nuca, dietro l’orecchio. Il fatto che il primo sia trascurabile rispetto al secondo ha permesso agli specialisti di osteggiare la tesi del Dr. Myers sopra riportata, concludendo che Dale Earnhardt è morto a seguito di un forte colpo all’occipite sinistro. Ma come è possibile, dato che quella zona della testa dovrebbe essere protetta dal casco?
Dale Earnhardt correva tradizionalmente con un casco aperto davanti (il cosiddetto “Jet”) che è stato sottoposto a scan e analizzato attentamente, senza trovare segni di cedimento o di impatto. In compenso alcuni indizi sul cinturino e le tracce lasciate dal microfono suggeriscono che il casco stesso fosse in una posizione anomala al momento dell’incidente, ossia leggermente ruotato in avanti rispetto alla testa del pilota lasciando scoperta proprio la parte bassa della nuca. Questa anomalia può essere spiegata facilmente: il contatto con la vettura #36 ha provocato un movimento in avanti del corpo di Earnhardt che però, ad un certo punto, è stato arrestato dalle cinture. Tranne la testa. Il capo infatti, non avendo alcun dispositivo che ne frenasse la corsa (il principio su cui si basa il collare HANS) ha subito un accelerazione nel momento in cui il resto del corpo è stato bloccato, causando a sua volta uno spostamento relativo del casco. A questo punto si creano due scenari, entrambi ritenuti plausibili dagli scienziati: il pilota ha colpito con l’occipite sinistro la parte destra del volante oppure ha subito il colpo rimbalzando indietro contro il sedile, toccando le strutture tubolari dell’abitacolo. In entrambi i casi però è stato sottolineato che l’impiego di un casco integrale non avrebbe cambiato l’esito. Per fare maggiormente luce, il 20 luglio 2001 è stato condotto uno "sled test" (letteralmente test della slitta) dalla Autoliv in Michigan con la partecipazione del BRC Team. È stata utilizzata un'intelaiatura ricavata da una stock car con sedile, volante e cinture simili a quelle reali e impiegato un manichino da test "Hybrid III" portato da 78kg standard a 92 e da 88cm seduto a 95 tramite l'interposizione di distanziali tra le vertebre lombari e sotto al collo, agganciato come usava fare Dale Earnhardt e posto in una posizione paragonabile a quella assunta dal pilota dopo il contatto con l’auto #36. Il test ha registrato una decelerazione più alta di 4G protratta 0.01 secondi di più, ma ha di fatto confermato le supposizioni: il manichino ha impattato contro il volante/colonna dello sterzo (deformandoli notevolmente) e poi contro le strutture posteriori con la parte posteriore sinistra della testa pur senza la separazione della cintura, incognita impossibile da replicare in un test. La conclusione ai 320 fogli di indagine è la seguente: la tragica dipartita di Dale Earnhardt Sr. è dipesa dalla contemporanea presenza di 3 fattori, ossia 1) la particolare dinamica dell’impatto tra la Chevrolet #3 e il muro di cemento, 2) il precedente contatto con la Pontiac #36 di Ken Schrader che ha cambiato la posizione relativa di Earnhardt e del suo casco e 3) il cedimento della cintura addominale sinistra sotto carico.
La sicurezza in NASCAR dopo il “caso Earnhardt”
L’investigazione venne pubblicata il 21 agosto 2001 e fu chiaro che certe norme non dovevano più essere concepite come soggette a gusto personale, ma rese obbligatorie per il bene di tutti. Divennero obbligatorie le cinture a 6 punti al posto di quelle a 5 punti e la NASCAR contribuì allo studio e all’introduzione delle SAFER barriers, impiantate per la prima volta a Indianapolis l’anno seguente e presenti su quasi tutti gli ovali americani nel 2005. In più, i grandi progressi mostrati nel campo della modellazione digitale e dell’analisi computerizzata portarono alla progettazione di una nuova generazione di vetture con standard di sicurezza elevatissimi, presentata nel 2007 e introdotta l’anno successivo con l’acronimo di CoT, Car of Tomorrow. Tuttavia questo non è bastato a salvare la vita di Blaise Alexander, morto il 4 ottobre 2001 nel campionato ARCA dopo essere finito contro il muro con lo spigolo anteriore destro. Anche in quell’occasione la causa fu la frattura della base cranica, destino condiviso nei precedenti 17 mesi da Adam Petty, Kenny Irwin Jr., Tony Roper e lo stesso Dale Earnhardt Sr., perché mancava all’appello la principale e più semplice soluzione per contenere i danni da forte decelerazione: il collare HANS. A settembre 2001 tutti i piloti della Winston Cup lo utilizzavano in gara tranne Tony Stewart e Jimmy Spencer, ma gli organizzatori della NASCAR lo resero obbligatorio in tutte le categorie solo dopo la morte di Alexander, in quanto considerato scomodo e non c’erano evidenze scientifiche per ritenere che Earnhardt sarebbe sopravvissuto se lo avesse avuto. C’è da dire però che, ad esempio, la CART lo rese obbligatorio giusto quell’anno, mentre la F1 solo nel 2003, a dimostrazione che il campionato di Bill France era al passo coi tempi per quanto riguarda l’introduzione di un dispositivo, un semplice arco in carbonio con cinturini integrati, che negli anni a seguire si rese protagonista del salvataggio di diverse vite in giro per il mondo grazie all’intuizione e alla perseveranza del Dr. Robert Hubbard spirato pochi giorni fa, il 6 febbraio 2019. Alla sua memoria e per l’incredibile importanza assunta dall’HANS nel motorsport pubblicheremo un articolo apposito nelle prossime settimane. Per il momento l’unica cosa che ci rimane da descrivere è la reazione accorata del mondo a seguito della morte di Dale Earnhardt, segno inequivocabile di quanto fosse amato nell’ambiente:
dalla gara successiva alla tragedia, a Rockingham, divenne abitudine degli spettatori sugli spalti quella di alzare tre dita al 3° giro di ogni gara, abitudine abbracciata dai telecronisti che iniziarono a rispettare il silenzio durante quel particolare giro. Il numero 3 venne ritirato dal team Childress Racing sino al 2014, anno in cui ne venne concesso l’uso ad Austin Dillon. Quello stesso anno anche Daniel Ricciardo lo scelse come suo numero di gara, ammettendo di essere stato un fan del pilota americano, così come Jimmie Johnson che festeggiò il raggiungimento dello stesso numero di vittorie di Earnhardt (76) esponendo le tre dita in auto, il 28 febbraio 2016. Quello stesso anno, Jonhson vinse il suo 7° titolo, unico assieme a Richard Petty e, guarda caso, Dale Earnhardt Sr. Gli sono state intitolate strade, tribune, canzoni e persino l’attrazione di un parco divertimenti, oltre a diversi documentari, e il suo nome compare in ogni genere di Hall of Fame collegata al mondo dei motori. Rest in Speed, Intimidator.
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