Pierluigi Martini: "L'incidente di Senna mi cambiò"
A volte ci si dimentica che i piloti di Formula 1 sono anche, e soprattutto, uomini. Nascosti dal loro casco, chiusi nel proprio abitacolo, risulta quasi impossibile intravedere in loro un'emozione, un segno di cedimento, un attimo di riflessione. Abituati a dover ragionare in maniera lucida, concentrati sul proprio lavoro e sugli obiettivi da raggiungere, pronti a reagire in una frazione di secondo a qualsiasi imprevisto, quella dei piloti potrebbe apparire ai più come una categoria di super-uomini, di macchine perfette capaci di affrontare qualsiasi paura. Cuore e testa: un mix perfetto per tutti gli atleti di altissimo livello, che però rischia di trasformarsi in un dualismo contorto, una sorta di battaglia interiore, quando uno dei due elementi inizia a prevaricare sull'altro. Perché a volte, certi accadimenti possono cambiare in una frazione di secondo delicati equilibri interni, insinuare dubbi, ed aiutare a vedere le cose da una prospettiva completamente diversa. Quel 1° maggio del 1994 rappresentò un punto di svolta per tanti piloti: non sono perché portò per sempre via il più grande di tutti, Ayrton Senna (un giorno dopo Roland Ratzenberger), ma anche perché scippò il mondo della Formula 1 di quella sensazione di invulnerabilità che era andata materializzandosi nel corso degli anni. Un week-end che riportò di colpo tutti alla realtà, ricordando una legge mai da sottovalutare, da sempre presente nel mondo delle corse: motorsport is dangerous.
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