Jules Bianchi, un ragazzo semplice
“Ciao Jules, come va?” “Hey ciao, tutto bene”. Mi era capitato diverse volte di incontrare Jules Bianchi nel paddock. Imola, Jerez, Barcellona, Monza. Eppure, in tutte le occasioni la netta sensazione che avevo avvertito era quella di non trovarmi di fronte al classico pilota talvolta troppo “costruito”, lontano e inavvicinabile.
Con lui non era difficile scambiare qualche parola su come si trovasse con la macchina, su quali fossero le sue aspettative per la sessione di test o per la gara successiva. Un ragazzo semplice, insomma. Ed ora si fa fatica, e provoca un immenso dolore, pensare che un destino beffardo lo abbia strappato alla vita, proprio quando sembrava che il suo futuro potesse riservargli una carriera ricca di soddisfazioni, magari anche da campione del mondo.
Aveva una bella famiglia Jules, aveva anche una ragazza affascinante che lo seguiva un po’ ovunque, negli autodromi di mezzo mondo. Ma soprattutto aveva il sorriso, quel sorriso tipico di chi è sicuro di sé, dei propri mezzi, ma anche di chi è consapevole di aver raggiunto la serenità interiore, nel vivere e toccare con mano un sogno che, giorno dopo giorno, sembrava potergli regalare nuove sorprese e avventure. Due chiacchiere nell’hospitality Ferrari a trovare gli amici di quel team che lo aveva allevato, cresciuto e che, con ogni probabilità, sarebbe stato la sua futura casa; quindi una foto con i tifosi e due battute con i giornalisti: Jules era uno che non si negava mai a nessuno, consapevole di vivere una realtà da privilegiato che era però riuscito a conquistarsi con tanto sudore e sacrificio. Prima i successi in kart, poi l’approdo in monoposto, per continuare quella sfilza di successi che sembravano regalargli un’aurea di invincibilità tale da attirare le attenzioni della scuderia di Maranello e della sua Driver Academy per giovani piloti.
Non erano poi mancati nemmeno i momenti difficili, come quando non era riuscito a rispettare i pronostici che lo davano come sicuro favorito nelle stagioni in GP2 e in F.Renault 3.5. Quasi obbligato a vincere, solo perché a mandarlo in pista era la Ferrari, o forse solo perché il suo manager si chiamava Nicholas Todt, il figlio del presidente FIA. Le porte della Formula 1 si erano poi aperte per lui, non senza la grande delusione di vedersi prima messo da parte dalla Force India per lasciare spazio ad Adrian Sutil, proprio quel pilota con cui il suo destino si sarebbe drammaticamente e beffardamente incrociato meno di due anni dopo. Il primo sogno si chiamava Marussia: monoposto da fondo classifica, soddisfazioni poche. Eppure il suo, Bianchi, lo aveva sempre fatto, portando la vettura al traguardo e mostrandosi costantemente più veloce del suo compagno di squadra. Sembrava quasi un lusso, per quel team ricco di passione ma povero di mezzi, quello di poter disporre di un pilota così talentuoso, presente in pista non perché forte di un budget astronomico ma per un piede destro innegabilmente pesante.
E l’occasione, quando gli si era presentata davanti, Jules non se l’era di certo fatta sfuggire. Montecarlo, la pista dei campioni, l’unico posto dove il pilota poteva ancora fare la differenza. Bianchi corre come un leone, guadagna decimi laddove gli altri sbagliano, e alla fine porta incredibilmente quel mezzo catorcio della Marussia a punti, in nona posizione. Un risultato che vale come una vittoria, il quale avrebbe poi consentito al team di sopravvivere anche nella stagione in corso grazie ai bonus acquisiti. Ma intanto, Jules aveva nuovamente calamitato l’attenzione intorno a sé: tutti si erano resi conto di avere a che fare con un talento puro, cristallino. Perché certi risultati non arrivano per caso, e certe prodezze non possono e non devono rimanere inosservate. Il suo nome diventa sempre più popolare, da più parti inizia a circolare quale possibile candidato ad un sedile sulla Rossa al posto di Alonso. Lui per un po’ ci spera, poi quando viene sapere che è stato scelto un altro pilota la prende con filosofia: “Se hanno deciso così, evidentemente avranno avuto le loro buone motivazioni”. Nulla però è perduto: in caso di terza macchina, questa sarebbe spettata a Jules. In alternativa, per il futuro immediato si prospetta un’ipotesi in Sauber, una vettura senz’altro più competitiva rispetto a quella Marussia ormai agli sgoccioli anche dal punto di vista finanziario.
Jules si presenta in Giappone con il suo consueto sorriso, consapevole che di lì a poco la sua carriera non avrebbe potuto fare altro che spiccare il volo. La gara inizia sotto la pioggia, lui ritarda il primo pit stop e nelle fasi iniziali occupa addirittura la terza posizione. Il resto è, purtroppo, storia nota. Ci ha provato, con tutte le proprie forze, a rimanere aggrappato alla vita. Ma un destino crudele ha avuto infine la meglio. Forse è meglio così, forse il suo spirito e il suo sorriso avevano voglia di volare liberamente, senza rimanere più ancorati ad un letto d’ospedale. A me piace pensarlo ancora libero, a proseguire la sua corsa, su una pista senza limiti né traiettorie obbligate, che gli consente di volare ancora più in alto, verso sogni che non conoscono confini.
Marco Privitera
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