Tourist Trophy: una lunga storia fatta di sogni, passione e follia
Il Tourist Trophy non è una cosa per tutti. Non lo è per i piloti, divisi tra loro dal quel filo sottile che separa il rischio calcolato dalla pura incoscienza. Ma nemmeno per il pubblico e gli addetti ai lavori, da sempre alle prese con l'annoso dibattito sull'opportunità di portare avanti una competizione che, anche quest'anno, ha dovuto fare i conti con la propria sfida al destino.
UN DIBATTITO ANNOSO
Se 'The Show Must Go On' rischierebbe di risultare un'affermazione cinica e incomprensibile, quella secondo cui al TT la morte possa fare "parte del gioco" suona come una bestemmia per i più. Ancora una volta, l'informazione generalista (e non) si è scatenata nella settimana dedicata alle gare sull'isola di Man. Concentrandosi, anziché sulle imprese sportive, prevalentemente su ciò che fa più scalpore. Perché se da un lato la morte nel motorsport è un qualcosa a cui mai e poi mai ci si dovrebbe abituare, dall'altro la caccia al sensazionalismo è nuovamente andata ben oltre il semplice "dovere di cronaca". Basterebbe pensare che persino l'edizione serale del TG5 (giusto per fare un esempio) abbia dedicato al TT un minuto del proprio tempo, utilizzandolo soltanto per stilare un triste e macabro elenco di vittime.
Da qui ognuno è libero di farsi l'idea che vuole. Eppure, non sarebbe stato male interpellare un esperto del settore, un pilota o un semplice appassionato. Per tentare di spiegare quella che, invece, è lo spirito e l'essenza del Tourist Trophy. Per sottolineare come quel rito che dal lontano 1907 si ripete ogni anno non sia soltanto un ritrovo per squinternati e drogati della velocità. Ma anche per parlare delle mille storie, dei riti e delle tradizioni, delle imprese epiche che da oltre cento anni vanno in scena in quello che è, probabilmente a tutti gli effetti, un vero e proprio salto nel passato.
Perché è vero che la società cambia e si evolve. Spesso non in meglio: sicuramente in una direzione più ipocrita e, molto spesso, perbenista. Quasi godendo nel voler tagliare i ponti con il passato in modo frenetico, senza curarsi del valore e dei valori irrimediabilmente perduti. In una rincorsa volta a soddisfare lobby e interessi specifici, in una caccia sfrenata al pensiero omologato, che non prevede la possibilità di mantenere un legame che ci tenga ancorati alle nostre radici. Come avviene tutt'ora per tantissime persone legate in maniera intrinseca al Tourist Trophy. Ultimo erede di un concetto di motociclismo che per molti meriterebbe soltanto di prendere polvere nei libri di storia.
PASSIONE E TRADIZIONE
Proviamo a spiegarlo allora a Michael Dunlop, quest'anno vincitore per la ventunesima volta sulle strade dell'isola di Man. Nel solco di una tradizione familiare, all'inseguimento di quel record che appartiene allo scomparso zio Joey, vera leggenda del TT con 26 successi. In nome e nel ricordo anche del padre Robert e del fratello William, i quali hanno anch'essi pagato con la vita la propria passione per le Road Races. Già, passione: quella che accomuna centinaia di piloti, appassionati e volontari, i quali a cadenza regolare si radunano sull'isola per dare vita a quello che è l'evento più atteso dell'anno. Che non chiedono nulla in cambio, se non la possibilità di poter vivere un'esperienza che rappresenta molto più di una "semplice" gara.
Perché torneranno a farlo anche l'anno prossimo. E poi quello dopo ancora. A dispetto di tutto e tutti: delle malelingue, degli opinionisti progressisti, del pensiero omologato. Cogliendo anzi l'occasione per ricordare Mark Purslow, Cesar Chanal, Davy Morgan, Roger e Bradley Stockton, i cinque caduti sull'altare di una passione che non accenna ad esaurirsi. 'Muori o vivi davvero', secondo l'azzecatissimo titolo del libro di Mario Donnini dedicato al TT. Una vera e propria filosofia di vita, adatta per chi teme più il grigiore che il nero della propria esistenza.
Marco Privitera