Yellow Flag Talks | La grande invenzione dell'Hans device: storia del sistema salvavita
Il 16 febbraio 2019 abbiamo pubblicato un articolo sul “caso Earnhardt”, un pezzo che ci siamo promessi di scrivere mesi addietro e la cui stesura ha richiesto giorni e giorni. Eravamo infatti presi dal lavoro anche quel 6 febbraio, giorno in cui ci è giunta la notizia: il Dr. Robert Hubbard, creatore del sistema HANS, è morto all’età di 75 anni. Un fulmine a ciel sereno: non solo per la notizia in sé, quanto soprattutto per il fatto che il nostro articolo parlava anche di lui e della sua geniale invenzione, a distanza di 18 anni dall’incidente mortale di Dale Earnhardt che ne fece capire l’importanza e la priorità di introduzione regolamentata, garantendone successo e diffusione. Ci siamo quindi promessi di redigere un nuovo articolo su questo semplice e al contempo complesso dispositivo, di cui sono stati utilizzati più di 200.000 esemplari dal 1990 ad oggi salvando molteplici vite: la storia, la tecnica e i principali dati vi sono offerti nelle prossime righe.
I 14 anni di rinascimento del tema sicurezza nel motorsport
Così Stephen Olvey, medico ufficiale del campionato americano CART, descrive il periodo che va dal 1986 al 1999, e iniziato con un’informale chiacchierata tra 4 medici appassionati di automobilismo nell’Hilton Hotel di Indianapolis, pochi giorni dopo la 500 miglia del 1985: i fisiologi Dan Marisi e Jacques Dallaire della McGill University, lo stesso Olvey e il suo collega chirurgo ortopedico Terry Trammell. La conversazione si trasforma in uno scambio di esperienze e dati, i contatti si stringono e nel maggio 1986 viene fondata la ICMS, International Council of Motorsport Sciences, con 30 iscritti operanti in vari settori della prevenzione e sicurezza automobilistica. Lo scambio di informazioni tra questi specialisti porta alla nascita di svariati progetti, come i dispositivi per monitorare i battiti cardiaci del pilota durante la guida (Dr. Jim Lighthall della General Motors insieme a Olvey), studi sulla dinamica e causa delle fratture vertebrali (John Melvin della General Motors e Trammell), simulazioni computerizzate di incidenti (Dr. Pria Prasad da Ford) e sviluppi sulle vetture di F1 (Dr. Hubert Gramling da Daimler-Chrysler e dr. Andy Mellor di TRL).
Nel gruppo è presente anche un ingegnere biomedico della Michigan State Unversity, Robert Hubbard: il suo interesse è rivolto verso una certa tipologia di lesione vertebrale che nel 1981 lo ha privato di un caro amico, il pilota Patrick Jacquemart, morto sul circuito di Mid-Ohio dopo che la sua Renault 5 Turbo IMSA aveva impattato frontalmente un terrapieno. Da quel momento, assieme al cognato e pilota Jim Downing, ogni suo sforzo è stato rivolto alla creazione di un sistema di ritenzione del capo del pilota, gravato dal peso del casco e da forze sempre maggiori a causa dell’escalation velocistica delle autovetture. Nel 1999 l’ICMS, formatosi 14 anni prima, contava 140 iscritti provenienti da 11 paesi diversi, e per la prima volta il convegno annuale vedeva la partecipazione della FIA, grazie ai buoni rapporti tra il presidente Hugh Scully e il medico della F1 Sid Watkins, ma anche la presenza di un delegato NASCAR. Fu in quell’occasione che Robert Hubbard e Jim Downing presentarono il loro “HANS device”, già conosciuto nell’ambiente ma ulteriormente affinato e testato, reso più comodo grazie a modifiche nella forma e più leggero. I risultati sorpresero tutti i presenti, tanto da renderlo un elemento indispensabile nei principali campionati mondiali nei successivi anni. Non furono certo il design e la “vestibilità” a decretarne il successo, ma una statistica: su 200 decessi registrati nel motorsport nella decade finale del XX secolo, molti erano causati da fratture craniche o cervicali. Come quella di Gonzalo Rodriguez nel 1999 a Laguna Seca, campionato CART, sotto l’occhio vigile ed esperto di Stephen Olvey che rimase esterrefatto nel constatare che, simulazioni e dati alla mano, il pilota uruguaiano si sarebbe con tutta probabilità salvato se avesse indossato un collare HANS.
Ma come si è arrivati ad una tale affidabilità nel contrastare lesioni temibili che nel corso degli anni hanno lasciato davvero pochi superstiti, quali i piloti di Formula 1 Philippe Streiff (rimasto tetraplegico) e Mika Hakkinen (salvato da una tracheotomia d’urgenza a bordo pista)?
Un lento sviluppo
La prima generazione sviluppata da Hubbard era rudimentale e voluminosa, senza meccanismo di sgancio rapido dal casco, ma partiva già dall’idea vincente di ancorare il casco al torso del pilota, vincolando movimenti di corpo e testa anziché assicurare quest’ultima al sedile come era stato teorizzato in passato. La struttura dell’HANS si adagiava sui muscoli pettorali e sulle spalle del pilota, per poi essere resa solidale al corpo stringendo le cinture toraciche.
L’ingenuità fu nel chiedere a un veterano delle corse come Mario Andretti di indossarlo, e un purista formatosi nel mortale e grezzo automobilismo degli anni ’60 non poteva che bollare quell’aggeggio con una semplice parola dopo qualche chilometro in pista: “insopportabile”. A supporto dell’invenzione di Hubbard però parlò la scienza: test condotti nel 1989 con manichini e indici di gravità dell’impatto diramati dalla General Motors, secondo cui la massima tensione sopportabile dal collo umano prima dell’insorgere di lesioni fatali era di circa 320 kg, dimostrarono uno scarico di forze dalla zona cervicale pari al 40-60%. Nel dettaglio, carico e tensione sopportati dai manichini SENZA HANS erano di circa 610 e 500 kg, mentre CON HANS rispettivamente di 131 e 95 kg. Inoltre si è osservata una compressione del petto passata da 36 a 8 mm. Ma i tempi non erano ancora maturi e, come spesso accade, si è deciso di accelerare i tempi di intervento solo dopo l’ennesima tragedia; in questo caso, il maledetto fine settimana di Imola 1994, nel quale due piloti morirono per fratture alla base cranica e un terzo (Rubens Barrichello) mise a serio rischio le sue vertebre cervicali. Il gruppo Daimler-Chrysler studiò la possibilità di adottare speciali airbag negli abitacoli monoposto e per pura curiosità mise a confronto questa inedita soluzione con il dispositivo di Robert Hubbard. L’HANS vinse su tutta la linea.
L’eclatante risultato spronò la strada ad ulteriori test che portarono al lancio della seconda generazione di dispositivi, quelli poi presentati al convegno di Londra 1999 e già nel 1996 adottati, seppur non obbligatoriamente, dalla NHRA (l’organo che regolamenta i campionati di dragster in America) a seguito della morte di Blaine Johnson in classe Top Fuel. Alcuni di questi test verificarono anche l’efficacia dell’HANS indipendentemente dall’angolazione di seduta, che poteva variare dai 45° gradi delle monoposto ai 30° delle stock car.
Da scomodo orpello a elemento essenziale
Affascinato e reso speranzoso dai risultati ottenuti, Stephen Olvey chiese a Robert Hubbard di presentare il suo dispositivo ai piloti della CART per il 2000, ma con scarso successo. Olvey allora decise di sfruttare la sua amicizia con Christian Fittipaldi, oltre all’indole puntigliosa del pilota brasiliano che non si faceva mancare niente tra ciò che poteva migliorare il suo equipaggiamento. Fu così che Fittipaldi partecipò a tutti i test invernali indossando l’HANS, alla presenza di Hubbard che raccoglieva dati e suggerimenti. Nel mentre, Olvey chiese e ottenne di renderlo obbligatorio su tutti gli ovali a partire dal 2001, incoraggiandone l’uso sui tracciati stradali. La CART fu così il primo campionato a regolamentare l’uso dell’ HANS device, e i frutti di questa scelta non si fecero attendere: in Texas, Mauricio Gugelmin perse il controllo della sua monoposto in uscita da curva-2, impattò frontalmente contro il muretto esterno e il piede destro incastrato tra freno e acceleratore lo spedì ad alta velocità contro il muretto di curva-3, stavolta col retro della macchina. Due impatti tremendi, da 66 e 113G rispettivamente, che creparono la resistente struttura in carbonio del collare HANS di Gugelmin, come scoprirono successivamente i soccorritori. La fine che avrebbero fatto le sue vertebre altrimenti...
Per onor di cronaca va detto che il fine settimana texano riservò anche altre sorprese spiacevoli, tra picchi di velocità e forze agenti che portarono gli ignari piloti in un campo della medicina mai esplorato fino a quel momento, neanche in ambito aeronautico, causando il primo annullamento di una competizione motoristica per motivi di salute nella storia delle corse e, in secondo luogo, l’inizio della fine del campionato CART. Ne parleremo dettagliatamente in uno dei prossimi articoli.
In quel 2001 il nome HANS prese a circolare anche negli ambienti della NASCAR, alle prese con un problema di sicurezza che aveva già causato la morte di 3 piloti nella sola stagione 2000. Dale Earnhardt Sr. si fece portavoce del malcontento dei piloti, riferendosi all’invenzione di Hubbard come un “cappio” che l’avrebbe strangolato più che salvato: il riferimento era al sistema di sgancio non ancora perfezionato, che costringeva il pilota ad armeggiare con i cinturini che collegavano l’HANS al casco. Dale Earnhard morì il 18 febbraio 2001 a seguito di una frattura della base cranica, sicuramente favorita dalla rottura di uno dei 5 punti della cintura, ma nessuno fu in grado di assicurare che l’esito sarebbe stato il medesimo se avesse indossato l’HANS. Come nessuno fu in grado di garantire il contrario. (Leggi "Il caso Dale Earnhardt") Questa incertezza ritardò ulteriormente la presa di posizione degli organizzatori sull’uso di sistemi di ritenzione del casco e il risultato fu la morte di un altro pilota, il 25enne Blaise Alexander, finito violentemente a muro il 4 ottobre 2001 al Charlotte Motor Speedway e morto praticamente sul colpo. Il 17 ottobre la NASCAR rese obbligatorio l’uso del dispositivo HANS o del Hutchens Device, un nuovo sistema sviluppato nei mesi precedenti che prevedeva l’ancoraggio del casco ad una serie di cinte assicurate attorno a spalle, petto e bacino del pilota. Quest’ultimo venne definitivamente abbandonato nel 2005 in quanto, pur essendo giudicato più confortevole dai piloti e meno costoso (500$ contro i 2000$ dell’HANS) non poteva più garantire gli standard di sicurezza SFI, introdotti per certificare l’efficacia dei tanti dispositivi di ritenzione entrati in commercio dopo il successo dell’invenzione di Robert Hubbard.
Contemporaneamente il problema dello sgancio dei cinturini venne risolto da Ahley Tilling, che propose l’utilizzo di particolari terminali metallici di derivazione navale sugli stessi. Ciò diede vita alla terza generazione di collari HANS resi obbligatori in F1 dal 2003, grazie ai buoni rapporti stretti tra Stephen Olvey, Terry Trammell, Sid Watkins e Gary Hartstein (successore di Watkins in F1 dal 2005) a partire dal GP USA 2000, con la creazione di un database in comune con la FIA e il successivo incontro tra Trammell e i piloti del circus iridato al GP del Brasile 2002.
Tre anni dopo, l’HANS divenne obbligatorio nel WRC e nel campionato V8 Supercar australiano; nel 2007 ben 40 enti organizzativi si affidarono a sistemi di ritenzione certificati SFI e dal 2009 la FIA lo impose in tutte le serie internazionali sotto la sua giurisdizione.
Ma esistono casi in cui il dispositivo HANS ha fallito la sua opera, o addirittura peggiorato la situazione? Parrebbe di no. L’unico episodio noto in cui l’HANS è stato messo sotto la lente d’ingrandimento degli investigatori è l’incidente che ha portato alla morte di Franco Ballerini durante il Rally Ronde di Larciano 2010: l’autopsia ha mostrato una drammatica frattura dalla nuca alla fronte dell’ex-CT della nazionale di ciclismo, per l’occasione navigatore su una Renault Clio R3 condotta da Alessandro Ciardi. Gli inquirenti hanno conseguentemente avanzato l’ipotesi che nel violento urto contro il muretto, l’HANS di Ballerini si sia infilato sotto la parte posteriore del casco durante l’escursione in avanti della testa che, tornando velocemente indietro, è stata lesionata dal rigido collare in carbonio. Tuttavia è stato sottolineato che questo effetto è plausibile solo nel caso in cui le cinture di sicurezza non siano sufficientemente strette, lasciando un eccessivo giogo all’HANS che sfrutta proprio il vincolo costituito dalle cinte toraciche.
L’HANS sembra non avere “zone d’ombra” quindi, tanto da venir usato ormai ovunque; persino i piloti di monster trucks lo indossano, ma più che questo dato sorprende una statistica redatta dagli stessi Stephen Olvey e Terry Trammell: dal 1985 al 1999 nella CART si sono contati 146 episodi di ferimento del pilota, 11 dei quali a livello cervicale che hanno portato al decesso in due occasioni. Dal 2000 al 2001, invece, 33 piloti sono rimasti coinvolti in 28 incidenti, registrando solo una lieve lesione cerebrale in un caso e 8 episodi di dolore al collo, ma nessuna frattura vertebrale.
Non sorprende quindi che i due medici abbiano espresso la loro riconoscenza agli ideatori dell’HANS con la seguente frase: “The racing world owes a large debt of gratitude to Bob Hubbard and Jim Downing for their marvelous invention.” Un riconoscimento che assume un significato ancora più intenso a breve distanza dalla scomparsa del Dr. Robert Hubbard, a cui la comunità motoristica internazionale deve molto.
Rest in speed.
Yellow Flag Talks