F1 | Ode a Sergio Perez, "risorto" più volte e immolato sull'altare Red Bull
L'esperienza di Sergio Perez in Red Bull Racing è finita e con essa il "viaggio" in F1 del messicano, delineato da una "cifra" particolare
Secondo il dizionario il significato della parola "risorgere" è legato ai corpi celesti, che "sorgono di nuovo" (come fa il Sole la mattina), e può avere un'accezione più ampia come sinonimo di "rialzarsi", in modo da essere di nuovo in piedi. La cifra di Sergio Perez in F1, onesto professionista del volante piuttosto che fuoriclasse e in ultima analisi mediano a supporto di chi ha i piedi buoni, sta tutta nelle pieghe e sfumature di questo concetto impalpabile di rigenerazione, sua o applicata a chi sta intorno, in un calderone di gloria e (parecchio) anonimato.
Messico e Sergio
Il nome di Sergio Perez aveva cominciato ad inserirsi, nell'universo della F1, in un periodo storico ben definito, quello successivo alla crisi economica globale del 2008, dove mercati emergenti (o presunti tali) cercavano di saltare sul carrozzone del Circus. I capitali provenienti dal mercato petrolifero o dal settore delle telecomunicazioni stavano muovendo le carriere di alcuni piloti e Checo, soprannome informale con cui in Messico ci si riferisce a chi si chiama Sergio, rappresentava una delle pedine disponibili e spendibili sulla "scacchiera".
Pilota senza una valigia...almeno non in forma esplicita, ma con "le spalle coperte", Perez aveva le doti velocistiche necessarie per emergere sulla concorrenza interna, assumendo così, nel corso degli anni, il ruolo di ambasciatore e centro di attrazione di un Paese con una passione per la F1 non sopita del tutto, nonostante fosse il quinto pilota del Paese centro-americano a prendere la via del Circus e smarcasse la casella delle presenze dopo un'assenza della bandiera messicana dalla griglia di partenza di un GP che durava dai tempi di Hector Rebaque (stiamo parlando del 1981).
Da FDA in McLaren
Checo esordiva in F1 nel 2011 con Sauber, scuderia "risorta" in qualche maniera dai cocci BMW, ed entrava (visti i rapporti della scuderia elvetica con Maranello) nel Ferrari Driver Academy, programma ancora acerbo alle prese con scelte, in qualche caso, piuttosto discutibili. Di quell'esperienza rimarrà un ricordo commosso della “coabitazione” con Jules Bianchi, cristallizzato in un toccante post diffuso via social proprio dal messicano all'indomani della scomparsa del pilota francese e accompagnato da una foto che li ritraeva entrambi giovanissimi, sorridenti e con la casacca rossa.
A parte questo, il rapporto con FDA si esauriva alla fine del 2012: i tre arrivi a podio (di cui uno spettacolare secondo posto al GP di Malesia, distanziato di un soffio dalla Ferrari di Fernando Alonso) della stagione lo portavano per il 2013 a Woking, Surrey, in casa McLaren, al posto di Lewis Hamilton. La scuderia inglese, orfana del pilota simbolo, stava vivendo il "crollo" dell'era Ron Dennis e il pilota messicano, in meno di un anno, si ritrovava nella palude di centro gruppo, per di più silurato a fine stagione.
Nessuna riconoscenza
I colleghi che ne sottolineavano l'eccessiva aggressività, con qualcuno che suggeriva "un pugno in faccia" come misura correttiva. Dal 2014 al 2020 affiancherà il proprio nome a quello della Force India, successivamente Racing Point. Sempre alla guida di monoposto non propriamente competitive e sempre alle prese con la nomea di pilota interessante, ma non abbastanza per un sedile di peso, saliva all'onore delle cronache nel 2018 per aver mandato la Force India in regime di amministrazione controllata.
Un'azione intentata scientemente dal pilota di Guadalajara, per tutelare il suo posto e quello di tutta la forza lavoro della scuderia di Silverstone, a seguito della gestione non proprio specchiata del team. Quanti altri piloti avrebbero perorato una causa del genere? Pochi o forse nessuno, ma la riconoscenza è merce fin troppo rara in F1 e nel 2020, con la scuderia ormai supportata da Lawrence Stroll, solo la prima vittoria conquistata in pista, in quel di Sakhir, lo salvava da un appiedamento quasi sicuro, dovuto all'ingaggio di Sebastian Vettel e...all'impossibilità di lasciare senza volante Lance Stroll.
Resurrezione ed immolazione
La resurrezione più clamorosa aveva le fattezze di un posto in Red Bull Racing, come seconda guida a supporto di Max Verstappen. In un parallelo con “Wish you were here”, la situazione lo aveva costretto a scambiare un ruolo da leader in una scuderia spinta da ambizioni più modeste con il ruolo di sparring partner in un team che poteva competere per il Mondiale.
La realtà dei fatti è che Checo rappresentava un ripiego, una soluzione posticcia ad una problematica più ampia, quella di un vivaio Red Bull che non produceva piloti in grado di supportare la nuova struttura attorno al pilota olandese di punta. Finché, come nel 2021, il contributo di Sergio ha fornito del valore aggiunto (basta pensare al GP di Turchia), tutto andava bene. Quando poi la macchina ha cominciato a girare da sola e il contributo di Checo non ha più avuto quel peso, la galassia Red Bull ha fatto quello che sa fare meglio: mettere in discussione e puntare il mirino.
Con gli sponsor timidamente defilati dal quadro, mancava solo la parola fine del rapporto tra le due parti, arrivata in vista della fine del 2024 con il pilota giubilato da Red Bull Racing e, amaramente, fuori dalla F1. ¡Suerte en tu próximo viaje! Checo, ora a Milton Keynes i problemi non avranno più un facile capro espiatorio.
Luca Colombo